L'Oro di Napoli

I 9 primi piatti napoletani più famosi

Dalla lasagna al ragù, dalla genovese alla frittata di pasta: chi li ha inventati, perchè si chiamano così e qual è la ricetta per prepararli

Genovese

La tradizione culinaria partenopea comprende un’infinita varietà di squisiti primi piatti. Ad accomunare le ricette, oltre alla bontà, è l’origine: sono tutte pietanze nate dall’unione di ingredienti poveri o per riciclare il cibo avanzato, e naturalmente sono frutto della grande creatività e inventiva dei napoletani. Parliamo di primi piatti, quindi di pasta. Non possiamo, allora, non aprire una piccola parentesi sulla cottura: la pasta a Napoli deve essere rigorosamente “al dente”. Fino al secondo Settecento veniva calata dai cuochi delle famiglie aristocratiche partenopee nell’acqua fredda e lungamente cotta per renderla morbida, poi i “maccheronari” (i venditori ambulanti di pasta) cambiarono la procedura introducendo un metodo tutto loro: la cottura veloce in acqua bollente per garantire maggior rapidità di servizio, ma anche una migliore digeribilità. E da allora a Napoli è cambiato il concetto di “pasta”. Ma vediamo quali sono i primi piatti napoletani più famosi.

LASAGNA


A contendersi la paternità di questo favoloso piatto sono due città: Bologna e Napoli. Le sue origini, in realtà, risalgono all’antica Roma, dove con il termine “laganon” e “laganum” i romani indicavano una sfoglia sottile ricavata da un impasto a base di farina di grano, che veniva cotto al forno o direttamente sul fuoco. Apicio, in particolare, parla di una “lagana” formata da sottili sfoglie di pasta farcite con carne cotta in forno. Ma ricordava solo lontanamente la lasagna che conosciamo noi oggi: si trattava semplicemente di un pasticcio di pasta e carne alla rinfusa. Nel Medioevo, poi,  questo tipo di lasagna si diffuse così tanto da venire citata in numerose opere di poeti. Nella Regione dell’Emilia comparve solo più tardi con l’arrivo della pasta all’uovo nel Nord Italia (in epoca rinascimentale) e con l’avvento di una ricetta, risalente al XIV secolo che prevedeva l‘alternarsi di strati di pasta e di formaggio: è probabilmente dall’unione di questa pietanza con le vecchie lasagne romane che, nel 1600, nacquero in Emilia le odierne lasagne completate un secolo più tardi della salsa di pomodoro arrivata da Napoli. Infatti, mentre la ricetta emiliana prevedeva l’uso della besciamella e della carne macinata, nella sua versione partenopea questi ingredienti sono stati sostituiti dalla ricotta, unita poi alla pasta a sfoglia (o pasta all’uovo), al ragù, alle polpettine e alla mozzarella. Ed è proprio in questo periodo storico che la tradizione della lasagna emiliana si scontra con quella napoletana. Se tutti riconoscono come ricetta ufficiale quella delle lasagne al pomodoro (contenuta nel famoso Principe dei cuochi o La vera cucina napolitana di Francesco Palma), non si può negare che pure gli antenati della lasagna odierna sono più partenopei che emiliani. A confermarlo diversi testi come il Liber de coquina di epoca angioina (inizio XIV secolo) in cui si parla di lasagne lessate e poi condite, strato dopo strato, con formaggio e spezie. Nel 1634 Giovanni Battista Crisci pubblicò a Napoli il libro La lucerna de corteggiani, che contiene la ricetta delle “lasagne di monache stufate, mozzarella e cacio”, la prima in cui le lasagne vengono farcite con un latticino a pasta filata e poi passate al forno. Mentre il re borbone Francesco II, ultimo re del Regno delle Due Sicilie, era stato soprannominato dal padre “Re lasagna” per la sua la passione smodata per le lasagne. Dopo il 1861 questo piatto iniziò a diffondersi in tutte le regioni d'Italia prima della sua definitiva affermazione su scala nazionale grazie a Paolo Monelli e al suo Ghiottone errante (1935). Decisiva è stata poi l‘Accademia italiana della cucina che nel 2003 ha depositato presso la Camera di commercio felsinea la ricetta delle lasagne verdi alla bolognese, e non di quelle “bianche”. Queste si preparano con ragù classico bolognese, parmigiano reggiano, besciamella, burro e sfoglia verde preparata con spinaci. Ricetta differente da quella delle lasagne napoletane, divenuto il piatto tipico di Carnevale, che si preparano con ragù, polpettine, ricotta vaccina, provola, pecorino, olio extravergine d’oliva e sfoglia, e sono rigorosamente “bianche”.

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RAGU’

Rinomato nel mondo, è tra i primi piatti più buoni e famosi della cucina napoletana. Tradizione vuole che le nonne e le mamme si sveglino la domenica all’alba per iniziare la lunga preparazione dei maccheroni al ragù. Il sugo viene preparato non con la carne macinata ma con pezzi interi di manzo da farcire, arrotolare e chiudere come dei grossi involtini, uniti poi a costine di maiale in un tegame di terracotta basso e largo, o di rame. La cottura deve essere molto lenta, a fuoco basso e deve durare 6/7 ore. La fase della "peppiatura" (cioè l’ultima fase della cottura) è la più importante di tutte: in questa fase il ragù sobolle lentamente, con il coperchio tenuto leggermente alzato da un mestolo di legno, in modo da creare un piccolo circolo d’aria che favorisce una delicata cottura piuttosto che un’ebollizione aggressiva che rovinerebbe questo capolavoro di arte culinaria. Le origini del piatto sono molto antiche: sembra derivi dalla cucina popolare medievale provenzale, risalente al XIV secolo, chiamato “daube de boeuf” (uno stufato di carne di bue mescolato a verdure e cotto lungamente in un recipiente di creta). Il "ragout" (dal quale deriverebbe direttamente il ragù napoletano) è, invece, un piatto francese posteriore, sempre a base di carne e verdure (si differenzia dal "daube de boeud” solo per ill tipo di carne usata, che generalmente di montone). Questo piatto (il cui nome deriva dall’antico francese "ragoûter" che significa “far rivivere il gusto”) inizia ad apparire nella cucina napoletana solo intorno al XVIII secolo con il regno di Ferdinando IV di Borbone: in questo periodo in cui vi fu una grande influenza della cultura e della moda francese a corte, ragion per cui molti piatti napoletani presero il  nome dalle “storpiature” dei nomi francesi, come appunto il ragù (ragout), o il gattò (gateau), e ancora il sartù (surtat).  Fu proprio Carolina d’Asburgo-Lorena, moglie di Ferdinando IV, a introdurre nelle cucine dei palazzi nobili la moda dei cuochi francesi, arricchendo le mense con questo sostanzioso piatto a base di carne di manzo o vitello di prima qualità, ma ancora privo di pomodoro.

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GENOVESE

Molti si saranno chiesti: “ma se è un piatto tipico napoletano perché questo nome? Sono diverse le leggende che lo spiegherebbero. La prima risale al periodo aragonese, nel XV secolo: sembrerebbe che, all’epoca, la zona del porto di Napoli fosse gremita di bettole in cui si preparava una pietanza a base di carne e cipolla per sfamare i marinai genovesi che si fermavano con le loro navi a Napoli una volta a settimana. Un’altra versione della leggenda, invece, associa il nome del piatto all’origine dei cuochi di queste bettole: a preparare la pietanza sarebbero stati cuochi genovesi. Una seconda leggenda, invece, attribuirebbe il piatto alla genialità di un cuoco napoletano, vissuto nel XV secolo, che veniva soprannominato “O Genovese”, da cui, appunto, il nome del piatto. Che sia vera la prima o la seconda leggenda non ci è dato sapere, ma una cosa è certa: il piatto della “Genovese” è nato in ambienti umili. Per questo motivo fu infatti definito il “raguetto” da Ippolito Cavalcanti nel suo trattato “La Cucina Teorica Pratica”, pubblicato a Napoli nel 1839. Ma sembrerebbe che “La Genovese” abbia un’origine ancora più antica che risalirebbe al Medioevo: alla fine degli anni Settanta, nell’Archivio Nazionale di Parigi, fu ritrovato un antico libro di cucina napoletana in latino volgare (il “Liber de coquina”). In questo trattato di cucina, dedicato a Carlo II d’Angiò e scritto nel 1300 da un anonimo della corte angioina, c’è una ricetta, la numero 66, intitolata “De Tria Ianuensis” (Della Tria Genovese), che corrisponde all’odierna ricetta della Genovese.

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PASTA E PATATE

Quella tradizionale napoletana deve essere “azzeccata”. E’ una pietanza dalle origini umili e povere si è diffusa nel Regno di Napoli nel XVII secolo. In questo periodo le patate ed i pomodori, essendo prodotti poco costosi, erano gli ingredienti prediletti dalle massaie che li utilizzavano nelle loro ricette semplici e nutrienti: tra queste c'era la pasta e patate. Questa pietanza, infatti, nascendo dall’unione di due carboidrati era ottima sia per suo il potere saziante che per la sua bontà. Anticamente, in questo piatto veniva usata la scorza di parmigiano per recuperare gli avanzi di alcuni alimenti. Oggi le varianti della pasta e patate sono molte ma la versione tradizionale vuole che sia preparata con la pasta mista (un tempo si mettevano insieme gli avanzi dei diversi formati di pasta disponibili in casa) e non deve essere assolutamente brodosa: deve essere “azzeccata” (come dicono i napoletani). Alcune trattorie popolari di Napoli, per attestare l’originalità della ricetta della pietanza, ancora oggi fanno la prova del piatto rovesciato: i camerieri rovesciano il piatto di pasta e patate e se questa non si stacca dal piatto finendo a terra allora è realmente doc! Oggi, la ricetta tradizionale è stata comunque rivisitata: c'è chi la prepara “in bianco” senza pomodori e senza aggiungere di altri ingredienti, c'è chi, invece, aggiunge la provola.

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PASTA E FAGIOLI

Eduardo De Filippo in "Natale in Casa Cupiello" diceva: "Io lo so che quando si fanno i fagioli in casa mia si fanno che possono bastare per tre giorni, perché ci piace di mangiarli freddi al giorno appresso, e pure riscaldati la sera..'a matina pe’merenda”. "Pasta e fasul” è un piatto con origini antiche: all’epoca dei Romani, prima dell’arrivo della pasta secca, erano già presenti le zuppe di fagioli, cucinate con ortaggi e spezie, all’interno delle quali ci si inzuppava il pane. Proveniente dalle cucine dei braccianti e contadini, è un piatto economico e allo stesso tempo nutriente, ricco di carboidrati e proteine. A quei tempi questo legume era consumato abitualmente ma non veniva ritenuto un cibo prelibato. Virgilio lo chiamava “vilem phaseulum” perchè abbondante, non per pochi eletti, e per questo non degno di dare il proprio nome alle illustri famiglie (al contrario di altri legumi: Pisoni-piselli, Lentulo-lenticchie, Fabia-fava). Durante il Medioevo, la facilità della sua coltivazione e le notevoli proprietà nutritive lo resero un alimento del popolo e dei conventi: veniva utilizzato come ingrediente nelle zuppe o come contorno di carni con le quali veniva cotto. In Francia veniva chiamato “mongette”, in Italia “fasselo o fasolo” (da cui la variante dialettale napoletana “fasul”). Esistono diverse varianti regionali di questa pietanza, tanto è vero che non è possibile definire con certezza quale sia la sua origine, ma naturalmente, non poteva mancare la versione napoletana: si tratta, infatti, di uno dei primi piatti più amati dal popolo partenopeo. Una particolarità della versione napoletana è che la pasta viene cotta direttamente insieme ai legumi, invece di essere cotta a parte e poi aggiunta ai fagioli. Con questa preparazione tutto l’amido della pasta, che andrebbe invece perso scolando la pasta, viene conservato. Un’altra caratteristica della versione napoletana è che la pasta deve essere rigorosamente mista (a Napoli si chiama “la munuzzaglia)”, mentre il fagiolo deve essere quello bianco, ovvero il cannellino, che unito alla pasta crea un sugo più denso e cremoso ("azzeccato" in napoletano). A tal proposito, a fine cottura, è importante che la pasta riposi, nel piatto o nella pentola, per qualche minuto prima di essere mangiata. È chiaro dunque, che nella versione partenopea, questo piatto non deve essere assolutamente brodoso. Di pasta e fagioli ne esistono due versioni: c’è chi la preferisce bianca e chi con il pomodorino. Molto popolare, nella cucina napoletana, è anche l'aggiunta delle cotiche o delle cozze per rendere la pietanza più ricca. Che sia bianco, rosso, con le cotiche o con le cozze, si tratta di un piatto talmente buono che si usa mangiarlo anche freddo.

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SOFFRITTO

Chiamato anche zuppa forte, è preparato nella stagione invernale e servito su fette di pane casereccio raffermo o utilizzato come condimento per la pasta (vermicelli in genere). Anticamente venivano utilizzate le interiora del maiale (polmone, cuore, reni, milza, trachea, cotenna, scarti carnei, lardo) - era usanza delle famiglie povere riciclare in cucina tutte le parti di questo animale -, sugo, rosmarino, peperoncino e alloro. Un tempo lo si preparava in casa, oggi è possibile trovarlo già pronto dal macellaio, basta solo aggiungere dell’acqua e scaldarlo sul fuoco. Ma quali sono le sue origini? La ricetta originale, risalente agli inizi del 1800, viene riportata nel primo vero ricettario napoletano, “La Cucina Napoletana”, scritto da Jeanne Carola Francesconi nel 1965. L’autore descrive così questo piatto delizioso: "Quando non avevamo il pomodoro e nemmeno i peperoni, mangiavamo il zuffritto, una zuppa tradizionale napoletana, povera e proletaria. Si preparava, infatti, con gli scarti della macellazione del maiale ovviamente d’inverno, e si mangiava tradizionalmente in filoni di pane casereccio raffermo, svuotati dalla mollica ed usati a mo' di contenitore”. “'O zuffritt” veniva venduto nella Napoli antica dalle venditrici di “zuffritto”, casalinghe che preparavano la zuppa forte e poi la vendevano in strada per guadagnare qualche soldo. Cominciavano la mattina presto (per cucinare la zuppa ci vogliono almeno 2 ore), ponevano la "fornacella" fuori dalle loro abitazioni - i cosiddetti "vasci" (i bassi) - e cuocevano le frattaglie in grossi pentoloni. Le persone che si incamminavano a quell’ora verso il luogo di lavoro usavano fermarsi dalle donne con il "palatone" (grosso e lungo pezzo di pane) per imbottirlo con il soffritto e mangiarlo durante la pausa pranzo.

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‘O SCARPARIELLO

Quando i napoletani vanno di fretta e non hanno molto tempo per cucinare preparano “'o Scarpariello”. Si tratta di uno dei piatti tipici della tradizione culinaria napoletana nato in una delle zone più popolari della città: i Quartieri Spagnoli. La pietanza, infatti, nasce proprio in quei vicoli dove un tempo vivevano gli “scarpari”, cioè i calzolai, che lavoravano ogni giorno nelle loro minuscole botteghe per riparare o fabbricare fantastiche scarpe. Alcuni narrano che le mogli e le sorelle di questi scarpari, non avendo molto tempo da dedicare ai fornelli, preparavano un “pasto veloce” nella pausa pranzo: lo Scarpariello, appunto. Secondo un'altra tesi, invece, questo piatto si preparava con i prodotti avanzati che si avevano in casa, o con quello che regalava (quasi sempre formaggi) allo “scarparo” la gente che non poteva pagarlo. La giornata dello “Scarpariello” era il lunedì, il giorno di riposo dei “scarpari”, quando si raccoglieva tutto quello che avevano regalato i clienti e lo si cucinava insieme al ragù avanzato la domenica. Ancora oggi lo Scarpariello è uno dei piatti più cucinati dai napoletani, specialmente quando si ha la necessità di preparare un piatto semplice e veloce. Ma a differenza di un tempo, oggi viene cucinato utilizzando i pomodori pelati o i pomodorini freschi al posto del ragù avanzato come voleva la tradizione.

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PUTTANESCA

Gli spaghetti alla puttanesca" o semplicemente "aulive e cchiapparielle" (olive e capperi) sono preparati con sugo, pomodoro, olio d’oliva, aglio, olive nere di Gaeta, capperi e origano. Le prime testimonianze di una pasta condita con una salsa simile risalgono agli inizi del XIX secolo, quando il Cavalcanti, nel suo manuale "Cucina teorico-pratica", propose alcune ricette di cucina popolare napoletana, tra le quali una “puttanesca” ante litteram, definendola “Vermicelli all’oglio con olive capperi ed alici salse”. Dopo alcune sporadiche apparizioni in altri ricettari di cucina napoletana, nel 1931 la guida gastronomica d’Italia edita dal T.C.I. la elenca tra le specialità gastronomiche della campania, definendola “Maccheroni alla marinara”, anche se la ricetta proposta è indubbiamente quella della moderna puttanesca. Si tratta, dunque, di uno dei molti casi nei quali il nome con cui è nota oggi la pietanza è successivo alla comparsa della pietanza stessa. Nel linguaggio comune infatti, questo particolare condimento per la pasta è noto semplicemente come "aulive e cchiapparielle". Ma allora da dove deriva questo nome così bizzarro? Il termine “puttanesca” è stato oggetto degli sforzi di immaginazione di molti esperti gastronomi, che hanno tentato in ogni modo di trovare la soluzione all’enigma. Secondo la tradizione che vuole la pasta alla puttanesca come tipica romana, agli inizi dl ‘900, un oste ideò questo piatto appositamente per i visitatori di una casa di appuntamenti che si trovava nella periferia di Roma. Una versione molto simile è quella raccontata dal noto esperto di gastronomia Arthur Schwartz che nel suo libro “Naples at table” ipotizza invece che la pasta alla puttanesca sia nata a Napoli e più precisamene nei Quartieri Spagnoli: all’inizio del XX secolo, il noto rione napoletano era infatti sede di attività di ogni tipo, tra cui alcune case di piacere. Un giorno il proprietario di una di queste “allegre dimore” decise di rifocillare i suoi ospiti inventandosi un piatto semplice e veloce, e fu così che pensò a questa pasta dal nome colorito. Altri fanno riferimento agli indumenti intimi delle ragazze della casa che, per attirare e allettare l’occhio del cliente, indossavano probabilmente biancheria di ogni tipo, di colori vistosi e ricca di promettenti trasparenze. I tanti colori di questo abbigliamento si ritroverebbero nell’omonima salsa: il verde del prezzemolo, il rosso dei pomodori, il viola scuro delle olive, il grigio-verde dei capperi, la tinta granato dei peperoncini. Altri ancora sostengono, invece, che l’origine del nome sia da attribuire alla fantasia di una ragazza di vita Yvette la Francese, una prostituta provenzale piuttosto autoironica, che dopo averla ideato questo piatto le affibbiò questo nome in onore al suo mestiere.

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FRITTATA DI PASTA

La frittata di pasta nasce come piatto povero dal riciclo della pasta avanzata il giorno prima. A questa si aggiungono le uova, il formaggio grattugiato, e il gioco è fatto: il risultato è un piatto semplicissimo ma squisito. La frittata di pasta è anche chiamata “frittata ‘e maccarune” perchè un tempo a Napoli con il termine “maccheroni” ci si riferiva a tutti i formati di pasta. I puristi ritengono che la vera frittata di pasta napoletana sia quella preparata con la pasta lunga (spaghetti o vermicelli) e rigorosamente bianca. Ma, in realtà, la frittata di pasta napoletana può essere bianca o rossa (con o senza l’aggiunta di sugo), con la pasta corta o la pasta lunga. Oltre alle versioni tradizionali, però, ci sono anche quelle farcite: con affettati e formaggi vari.

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